L’attività sportiva è sempre benefica?
Dipende da quello che ricerca chi la pratica: performance, equilibrio o padronanza di sé.
Difficile sfuggire allo sport. Quando le grandi maratone internazionali radunano migliaia di praticanti, la televisione trasmette continuamente spettacoli sportivi e lo sport etichetta oggetti e attività lontanissimi dai campi di gara (profumi, automobili, atteggiamenti, problemi esistenziali), fino allo “sport da camera da letto”, sembra che lo sport sia diventato ormai un “fatto sociale totale”, secondo la definizione di Marcel Mauss.
Tuttavia, per chiarezza semantica, è il caso di ricordare che non tutta l’attività fisica è sport, così come lo sport non è solo quello veicolato dai media. Da un lato, lo sport in senso stretto è un’attività nata nel XIX secolo da un progetto di riforma pedagogica e morale, si è realizzato in competizioni istituzionalizzate ancora in vigore ai nostri giorni, il che esclude per definizione attività fisiche come coltivare l’orto o salire le scale.
Dall’altro, quello di cui si occupano i media è lo sport di altissimo livello, una sfera totalmente a sé, distinta sia dalla tradizione dell’educazione fisica che dalle attività sportive del tempo libero. Queste distinzioni sono importanti per capire il tipo d’interesse che ciascuno investe nello sport e gli eventuali vantaggi che può sperare di ricavarne.
Nuoto
Cinque ore di nuoto settimanali per ragioni di salute o quaranta ore di allenamento per partecipare alle olimpiadi non comportano le stesse aspettative, né gli stessi effetti: una differenza quantitativa che diventa qualitativa e mette in discussione i “benefici” dello sport.
Se può dar luogo a una tale passione esclusiva, ma è anche prescritto dal medico, se, parafrasando il Sisifo di Camus, l’uomo deve immaginarsi “sportivo felice”, se il campione, infine, è un eroe della modernità, dovremo domandarci in che senso lo sport può renderci migliori e quale significato ciò rivesta nella nostra vita: virtù morale, successo, fantasma igienista, realizzazione spirituale?
Il termine “migliori” corrisponde qui agli scopi molteplici – militari, medici, pedagogici, competitivi – che l’esercizio fisico ha fino dall’antichità classica: migliori di chi? Migliori di cosa? Si avverte una gradazione di pratiche e di risposte fra la connotazione etica mirata all’interiorità e la performance che implica rivalità, fra l’ideale olimpico di De Coubertin e i dispositivi digitali destinati a chi fa sport.
Quali sono le motivazioni che ci spingono a correre nei parchi o sul tapis roulant, ad avventurarci nella maratona o nella corsa campestre? Cosa rivela questa passione competitiva che ci costringe a superare noi stessi, sul campo o di fronte a uno schermo? Perché soffrire per godere infine il piacere dello sforzo estremo? Laboratorio del sociale, lo sport è anche il terreno di un’esperienza esistenziale, che mette a confronto con se stessi e, come scriveva Spinoza, con «ciò di cui è capace il corpo umano». Sono queste le variabili che ci interessano qui, per distinguere i tipi di eccellenza possibili in un’attività proteiforme, e il senso che rivestono.
Ambivalenza dell’eccellenza
L’antichità greca non è solo la fonte remota dei Giochi Olimpici, ma ci rimanda alla questione fondamentale del senso di eccellenza: prestazione eroica o giusta misura. Nei poemi omerici, testi per molti versi d’ispirazione “sportiva”, l’eccellenza (aretè) implica grandezza, la superiorità si fonda sulla vittoria e lo statuto eccezionale dell’eroe presuppone virtù morali e fisiche. Eccellere significa essere il migliore e nel conseguimento di questa posizione di privilegio interviene senza dubbio l’addestramento fisico. In Aristotele invece non ha posto l’eroismo atletico, ma un’altra visione dell’eccellenza. Nell’etica nicomachea essa significa misura, il “giusto mezzo in relazione a noi”. In altre parole, la prudenza condiziona la saggezza, la quale tuttavia non è accessibile a tutti.
L’eccellenza presuppone il kairos, il momento esatto e raro dell’azione, simboleggiato dall’arciere che coglie nel segno. È una visione della giusta misura che è selettiva, aristocratica (in questo vicina alla concezione omerica della grandezza), non priva di un risvolto estetico. Non c’è traccia di eccessi, di superomismo né di dominio sugli altri nella visione aristotelica, ma una cultura dell’equilibrio, dell’armonia con se stessi e con la natura, che ha la sua controparte medica nell’opera di Ippocrate.
Sono due concezioni dell’eccellenza che creano un’ambivalenza filosoficamente feconda nella definizione di ciò che è bene: quella fra buono e migliore, fra limite e illimitato, fra equilibrio ed eccesso, fra salute e performance, fra realizzazione e superamento.
Storia della ginnastica, dell’educazione fisica e dello sport
Questa ambivalenza si incarna in maniera emblematica nella storia della ginnastica, dell’educazione fisica e dello sport, una storia che da sempre oscilla tra finalità che mirano a un sano equilibrio o al continuo superamento dei limiti. “Migliorare” può quindi significare star bene in un progresso fisico e psicologico di cui render conto solo a se stessi, o far meglio nel senso di superare se stesso e gli altri.
È una sfumatura sottile, che a volte diventa un abisso incolmabile: nella sua cultura dell’eccesso e nell’intensità dei carichi di lavoro che impone, lo sport di eccellenza rompe con qualunque idea di giusta misura, come testimonia il corpo ipertrofico, dopato, indebolito di certi atleti o le catastrofiche riconversioni a cui sono esposti.
Quando essere migliori significa migliorare indefinitamente
Il mondo greco concepiva il superamento di sé solo entro limiti normativi insuperabili: quelli della legge, del cosmo e del divino. Non lo vedeva come facciamo noi, né lo teorizzava come un’idea-forza. “Superarsi all’infinito” non era un concetto legittimo, perché sull’infinito prevaleva il finito, il completo, il realizzato, cioè il perfetto, mentre progredire indefinitamente avrebbe significato superare i limiti naturali, agire “contro natura”, a rischio della follia. Lo stesso concetto di performance in quella concezione era circoscritto a quanto autorizzato da ordini esterni.
Ben diverso è il contesto della modernità. La rivoluzione copernicana, la scienza nuova di Galileo, la sfida cartesiana di “renderci signori e padroni della natura”, infine la straordinaria fecondità – pedagogica, medica e politica – dell’idea illuministica della perfettibilità umana, conducono al progetto di miglioramento dell’individuo e della specie. Il progresso diventa potenzialmente illimitato, ribaltando i valori tra finito e infinito, la natura diventa trasformabile e la misurazione (statistiche, rilevamenti strumentali) è il parametro principe di tale processo.
È in questo contesto che a metà del XIX secolo nasce lo sport moderno propriamente detto. Dapprima voleva essere un progetto pedagogico, avviato a fini politici da educatori come il reverendo Thomas Arnold, che nel 1828 divenne rettore della Rugby School (il college dove si dice sia stato inventato l’omonimo gioco). Al gioco sportivo – prima come football rugby, poi come football – si attribuiscono virtù morali che rappresentano anche valori di ordine e di gerarchia sociale intesi come meritocrazia: sviluppo dell’autocontrollo, rispetto dell’altro, solidarietà, emulazione e superamento di sé.
Il successo non tarda: le discipline sportive si moltiplicano, dilagano fuori dalle isole britanniche e seducono osservatori come Pierre de Coubertin o Hippolyte Taine, affermandosi come passatempo privilegiato, strumento educativo e infine, nel XX secolo, come spettacolo universale.
È indubbio che la posta in gioco sia di ordine morale. Il gioco rende migliori in quanto promuove virtù (che poi si chiameranno “sportive”): conviene agli aristocratici, ma anche alla borghesia in ascesa che ne adotta la meritocrazia intrinseca, come alle masse lavoratrici che vi incanalano (e moltiplicano) la loro energia.
In quanto strumento dell’ordine sociale, lo sport contribuisce al patriottismo e alla formazione della gioventù, nel momento in cui l’Europa è minacciata dalle guerre. Assolve anche a finalità di tipi igienico-sanitario, benché De Coubertin, in contrapposizione per esempio alla tradizione salutista della ginnastica svedese, insista soprattutto sugli aspetti ludici e pedagogici.
Questi tuttavia nascondono alcune fratture teoriche. La prima nasce dal fatto di aver fondato lo sport sul superamento di se stessi, in un’epoca in cui il miglioramento dell’uomo cerca di concretizzarsi nella tecnica. Già alla fine del XIX secolo lo sport è un oggetto di laboratorio (per esempio nella Stazione fisiologica del Parco dei Principi, a Parigi), paragonabile alle ricerche sulla produttività del lavoro industriale: ergonomia del corpo umano in fabbrica e negli stadi, promozione di un evoluzionismo schematico che ha per emblema il record, scissione fra l’ideale di una pedagogia globale di base incarnata nell’educazione fisica e la specializzazione esasperata dello sport competitivo (Hebert, 1925). Da allora il progetto di miglioramento umano si esprime nel motto dei giochi olimpici, Citius, Altius, Fortius: più veloce, più alto, più forte.
La seconda frattura è contenuta in germe nella competizione sportiva. Lo si avverte già nelle parole di De Coubertin, quando evoca «la libertà di eccesso» che a suo dire definisce lo sportivo autentico (De Coubertin, 1931). Negli anni sessanta del secolo scorso nasce lo sport di élite, con la mondializzazione e la copertura