Ritenzione idrica post allenamento nelle donne

Di:   Mariangela Smimmo  |  23 Agosto 2022

Con il termine “ritenzione idrica”, in medicina, si indica quel fenomeno che porta l’organismo a trattenere liquidi, che vanno poi ad accumularsi negli spazi interstiziali, ovvero quelli tra cellula e cellula ed è generalmente superiore nelle zone predisposte all’accumulo di grasso (addome, cosce e glutei) causando un gonfiore (dovuto alla presenza di grasso sottocutaneo presente associato con la presenza di liquidi) anomalo chiamato edema e quindi i fluidi non sono rimossi correttamente dai tessuti.

Si ha ritenzione idrica quando i tessuti dell’organismo tendono a trattenere i fluidi provocando gonfiori spesso associati a dolori, aumento improvviso del peso o fluttuazioni del peso con rigidità delle articolazioni.

Quando il problema riguarda tutto l’organismo si parla di ritenzione idrica generalizzata, ma più spesso la ritenzione idrica porta all’accumulo di fluidi solo in aree localizzate dell’organismo, principalmente in gambe e glutei ovvero in quelle zone di difficile circolazione capillare e di ritorno venoso.

Metodo diretto e indiretto

Per verificare l’effettiva presenza del disturbo possono essere effettuati dei test attraverso l’esame del peso specifico delle urine (metodo diretto), oppure è sufficiente premere con forza il pollice sulla parte anteriore della coscia per un paio di secondi. Se dopo aver tolto il dito rimane ben visibile l’impronta siamo con tutta probabilità in presenza di ritenzione idrica (metodo indiretto) e da non confondere con la problematica della cellulite.

A causa dell’alterata circolazione venosa e linfatica, insieme a questi liquidi ristagnano anche numerose tossine che alterano un metabolismo cellulare già compromesso dal ridotto apporto di ossigeno e nutrienti. È un tipo di complicazione psico-fisica molto sentita ma spesso sopravvalutata.

In questo articolo vogliamo portare l’attenzione sugli effetti di un allenamento non individualizzato sulle esigenze specifiche di ogni donna, che porta di conseguenza anche all’insorgenza di questo fenomeno e l’abbandono di questo target agli allenamenti.

Comune è l’idea che per migliorare sia le capacità condizionali (forza, resistenza e velocità) e quindi l’aspetto intrinseco, oltre che far emergere di conseguenza miglioramenti sull’aspetto esteriore (tono muscolare ed equilibrio tra massa magra-massa grassa), occorra arrivare “sempre” ad eseguire un numero di ripetizioni che non ci permetta di procedere con il lavoro muscolare, arrivare quindi a cedimento muscolare totale. Non è affatto così in realtà.

Allenandosi sempre utilizzando questo tipo di metabolismo che porta alla produzione di acido lattico, con circuiti ad alta intensità senza rispettare i parametri fisici e motivazionali dell’individuo, porta a quella sensazione di gonfiore e dolore post allenamento, una sorta d’appannaggio delle zone allenate, ostacolando di conseguenza il processo di microcircolo e quindi d’ossigenazione dei tessuti coinvolti.

Cosa dice la scienza

La scienza ci ha chiarito da tempo come l’acido lattico abbia dei tempi di smaltimento al massimo di qualche ora, quindi il giorno dopo non è l’acido lattico a procurarti i dolori ma sono dolori che invece si chiamano DOMS (Delayed Onset Muscle Soreness), fenomeni indotti da microtraumi delle miofibrille, con rottura parziale o totale dei legamenti proteici.

Vi è un aumento della ritenzione di liquidi indotti dall’acido lattico in quanto ostacola l’ossigenazione dei tessuti (come se creasse una pellicola) che però viene smaltito parzialmente nel breve termine creando dei micro stress sottocutanei dove la bilancia produzione-smaltimento subisce una significativa alterazione metabolica ed estetica.

Infatti risulta essere proprio questa bilancia produzione – smaltimento l’obiettivo da tenere in considerazione, dal momento che quello che conta non è tanto l’acido lattico o le tossine che si producono (in quanto sono processi fisiologici), ma la capacità di smaltimento delle unità di tossine dell’organismo.

Quello che è necessario ricercare è uno stress muscolare intenzionale, calibrato, acuto e non cronico, uno stress capace poi di essere metabolizzato e smaltito.

Capacità di smaltimento

La capacità di smaltimento cambia significativamente a seconda dello stile di vita (inteso in questo caso come movimento se l’alimentazione è regolare), ovvero se siamo di fronte ad un individuo sedentario o attivo. Nell’individuo che pratica movimento con regolarità (almeno 3/4 volte alla settimana) associato con uno stile di vita quotidiano che predilige spostamenti attraverso l’utilizzo del proprio corpo, si riduce significativamente la quantità di tossine da smaltire, in quanto l’organismo nel tempo ha adattato le proprie condizioni fisiologiche a micro stress continui, regolari, costanti e progressivi e associando uno stile di vita attivo anche per attività quotidiane dove predilige il metabolismo aerobico come processo di smaltimento.

Associato a ciò se si utilizzano anche strumenti di recupero che prevedono un processo passivo da parte dell’individuo che riceve il trattamento (come ad esempio i massaggi), il tempo di recupero e quindi di smaltimento aumenta significativamente portando ad una condizione di equilibrio.

Quindi non è necessario arrivare all’esaurimento muscolare, così da non creare eccessi di produzione di acido lattico (associato al numero di ripetizioni e/o alla quantità della serie svolta), ma bisogna ricordare che è lo smaltimento e quindi il recupero che fa la differenza.