Aspetti pedagogici
a cura di Armando Calligaris
Dottore in Scienze Motorie
Preparatore Fisico Professionista Calcio, Pallacanestro, Tennis
Psicomotricista Funzionale
Docente di Teoria e Metodologia dell’allenamento presso Coverciano
Responsabile area motoria Scuola Calcio Genoa
Parlando d’insegnamento del calcio, ci si addentra in un delicato problema pedagogico che, in questi ultimi anni, ha creato tra i tecnici opinioni e concezioni spesso divergenti.
Nella metodologia Psicocinetica, come premesso nel precedente articolo, si contempla la persona come coesione di una triade indissociabile, senso-motoria, cognitiva e affettiva. E’ proprio dal sistema affettivo – emotivo che parte la “scintilla” verso ogni forma di apprendimento. Stiamo parlando delle motivazioni. Usando il plurale dovremo contarne una diversa per ogni singolo piccolo/grande atleta ma soprattutto rispettarle. Per facilità di esposizione provo a descrivere brevemente le motivazioni probabilmente più comuni.
- Il gioco è una delle motivazioni fondamentali dell’atleta ed è anche una delle attività che gratificano maggiormente l’“homo ludens”.
- L’agonismo è una forma socializzata dell’aggressività, che non va però intesa come sinonimo di aggressione e violenza, ma come impulso primario di affermazione individuale e come una caratteristica naturale del genere umano. Le tendenze aggressive, incanalate verso un’attività che adotta delle regole seguite con lealtà, diventano sport.
- Il bisogno di movimento che tende a ripristinare l’equilibrio neuro-dinamico mediante una scarica motoria in cui è liberato un surplus energetico.
- I fattori socio-culturali acquistano significato se riportati ad esigenze di tipo sociale che l’individuo ha assunto e interiorizzato dal proprio contesto culturale. Tra essi possiamo annoverare: l’affiliazione, l’approvazione sociale, l’achievement (bisogno di affermazione da non riferirsi in termini economici e di potere, né come successo mondano, ma come “necessità di autorealizzazione” attraverso l’offerta delle proprie migliori capacità).
- I fattori psico-patologici che motivano il giovane alla pratica sportiva possono originare da sentimenti d’inferiorità, desiderio di potenza, narcisismo, virilità (come modello auto affermativo).
Penso sia importante sottolineare come i fattori psicologici sono quei vettori motivazionali determinati dall’incontro del temperamento con l’esperienza della vita vissuta, cioè espressi nel carattere. Le esperienze emotive infantili e adolescenziali, interagendo con l’ambiente, influenzano le scelte di vita dell’atleta che presenta così vissuti ed esigenze di tipo affettivo, comunicativo, emulativo, individualizzante, proiettivo, catartico. Infatti possiamo essere testimoni della potenziale modificazione delle motivazioni in relazione all’età; infatti durante tutto il processo evolutivo alcuni fattori secondari possono accendersi, altri spegnersi.
A proposito di rispetto delle motivazioni soggettive ci si pone la questione se il rapporto interpersonale tra allenatore e atleta tenga conto di tutto ciò. Pare evidente a tutti come invece, da un lato si rileva l’importanza di “un’azione personalizzata” rispettosa di una motivazione soggettiva e dall’altro è proposta la “prassi produttiva”, che spesso trascende le motivazioni dell’individuo. Nascono quindi due approcci diversi tra allenatore e bambino/ragazzo: la gestione dell’atleta-uomo piuttosto che dell’atleta-macchina. Da queste due concezioni derivano modi diversi di interazione con l’atleta: un “modo democratico-empatico” e un “modo autoritario”. A tal proposito è da ricordare che molti atleti, essendo stati formati in contesti familiari, sociali o sportivi di tipo autoritario, difficilmente riescono ad inserirsi in un clima non direttivo, poiché vi è una continua ricerca della scala gerarchica. E’ necessario quindi tener conto, nell’impiego degli stili di conduzione, delle condizioni socio-culturali da cui provengono i singoli atleti.
Nel capitolo 1 del libro “Approccio Psicocinetico al calcio” abbiamo voluto trattare un argomento le cui dimensioni sono allargate non solo al gioco del calcio. Il riferimento è ad un’età di crisi come quella adolescenziale. E’ l’età della ricerca individuale dell’iniziazione, il passaggio tormentato tra un’infanzia che non è ancora finita e una maturità non ancora assunta. “Il ragazzo si trova immerso, durante questo periodo, in una burrasca morfologica, che si accompagna a una tempesta psicologica; e poiché spesso non si ha un rigoroso parallelismo tra maturazione somatica, intellettuale e sociale, questa frequente distorsione dà luogo a disadattamento sociale” (Duchè). Incertezze comportamentali e crisi di sfiducia diventano problemi frequenti e spesso portano con sé strascichi psicopatologici (depressione, eretismo nervoso, distraibilità) e psicosomatici (deperimento, cefalea, anoressia mentale).
“La possibilità di una definizione maggiormente nitida del concetto di sé è strettamente collegata a come l’individuo ha sperimentato nel tempo il proprio corpo” (Harris). Noi pensiamo anche che, non disunito dall’attività sportiva, debba essere tracciato un percorso di consapevolezza delle emozioni e di una loro prima gestione. Un lavoro sull’autostima deve precedere il “mare in tempesta” adolescenziale per poter essere un’eventuale scialuppa di salvataggio.
Sul piano interpersonale, l’adolescenza è caratterizzata dalla crisi dei vecchi legami affettivi e dalla ricerca dei nuovi; crisi che investe principalmente i rapporti tra il giovane e i genitori. Il giovane tende a sostituire l’immagine dei genitori con nuove figure da idealizzare (gli eroi dello sport, dello spettacolo, del gruppo di coetanei). Il distaccarsi dalle figure familiari genera a livello inconscio un conflitto: il desiderio del mondo esterno si accompagna infatti ad ansietà e insicurezza, facendo rivivere “l’angoscia dell’estraneo” (Spitz) e respingendo temporaneamente l’adolescente dentro l’abbraccio protettivo della famiglia. In questa condizione ambivalente, dove da un lato vi è la richiesta di evasione, dall’altro vi è un’indiretta voglia di protezione, l’attività all’interno di un club sportivo che annoveri dei coetanei rappresenta per l’adolescente un buon mezzo per risolvere questa situazione conflittuale. La figura dell’allenatore o dei compagni più anziani viene ad essere un punto fermo rassicurante e di notevole spessore affettivo in cui trovare una maggiore autonomia e una più sicura identità rispetto a ciò che si può trovare all’interno del nucleo familiare.
L’adolescenza non è però l’unico periodo difficile, poiché l’andamento del processo evolutivo non è uniforme; è quindi normale trovare fasi d’indecisione e riorganizzazione della personalità, in cui la stabilità psichica acquisita dal soggetto è rimessa in discussione. Tali “crisi”, che si trovano nel punto di sutura tra una fase evolutiva e l’altra, sono da considerarsi momenti formativi e quindi da ridimensionare in termini positivi. Vi è l’impegno attivo per la ricerca della propria forma, del proprio stile di vita, secondo una formula di adattamento più idonea a soddisfare le esigenze individuali e le richieste dell’ambiente.
A questo punto dobbiamo sfatare il mito della gioventù quale periodo di sola spensieratezza e gioia. L’infante, il bambino, l’adolescente hanno invece le loro pene, i problemi dovuti a timori e disillusioni, nonché sentimenti di rivalità e gelosia. Ciò è sufficiente per mostrare che la gioventù non è tutta “rose e fiori”, ma presenta invece situazioni che sovente creano problemi e conflitti da risolvere. Anche da questo percorso prende forma la personalità dell’individuo e la qualità dell’interazione con l’altro.
Nel calcio, come nel gioco in generale, sono presenti interazioni strategiche e socio-emozionali nelle quali si presentano tutti quei momenti che riproducono la realtà dei rapporti interpersonali: inclinazioni e avversioni, bisogni e scambi, aggressioni e pregiudizi, ritirate e attacchi, fiducia e sfiducia, comprensione e malintesi. L’atteggiamento, la postura e i movimenti stessi esprimono ciò che prova qui e ora un soggetto nella situazione totale attuale quale esso la vive.
Non è quindi solo l’aspetto motorio inteso in tutta la sua dinamicità che ci interessa, ma tutto ciò che può essere espressione rivelatrice in una certa misura della persona. Se la psicanalisi utilizza il linguaggio per risalire al corpo vissuto, la sola osservazione del corpo in movimento mostra goffaggini, impacci, inibizioni, rigidezze, contrazioni di ogni tipo che hanno spesso un valore rivelatore immediato delle difficoltà in rapporto al mondo o, quantomeno in rapporto ad una situazione contingente particolare (ad esempio la situazione di gara). In più, possiamo credere come la personalità si forgia su continui scambi comunicativi fra l’individuo e l’ambiente.
Il calcio invece, in quanto sport di situazione, prevede continui scambi di comunicazione, una sorta di propria contro comunicazione motoria (CCM). La contro comunicazione motoria è un’interrelazione motoria d’opposizione prevista dalle regole del gioco del calcio. L’analisi delle reti di CCM possibili è uno degli strumenti offerti dalla teoria della socio motricità per una comprensione e un giudizio pedagogico sulla sua utilità.
Chi è in grado di avere una visione corretta dell’attività sportiva contemporanea, oggettivamente deve constatare che esistono due correnti divergenti nell’orientamento. Da una parte c’è la corrente delle competizioni sportive selettive e quindi dello “sport campionistico”, dall’altra c’è la corrente dello “sport per tutti” con intenti ludici e amatoriali. Nella pratica, vista la progressione evolutiva del giovane calciatore queste due correnti non dovrebbero opporsi; anzi, come detto in precedenza, in alcuni casi potrebbero essere complementari e consequenziali. Tuttavia dobbiamo constatare che molto spesso vi è invece una separazione, talvolta anche una netta opposizione.
Lo sport è spesso abbandonato perché i giovani non trovano soddisfatti i bisogni che li avevano inizialmente spinti a intraprendere l’attività. Pertanto non ci stancheremo mai di ripetere che i programmi sportivi orientati solo all’ottenimento dei risultati ma che non tengono in considerazione la complessità delle variabili motivazionali favoriscono il fenomeno dell’abbandono. Partire da un’attività di massa che non porti a selezione ma a gratificazione è la giusta via da seguire per dare fondamenta solide. Sarebbe auspicabile demonizzare la precocità sportiva monodisciplinare, fornendo strutture capillari sul territorio dove professionisti qualificati possano fornire una sventagliata di proposte a una gioventù non “robotizzata”, ma consapevole di avere un proprio corpo non disgiunto da mente e cuore. Stiamo parlando di un corpo unico e irripetibile… prezioso.